Fade out.

Cantar Opera dalla Pandemia in poi.

Non il solito anglicismo, ma una nota tecnica discografica, o cinematografica, utilizzata per terminare un brano o una sequenza (anche quando non si hanno soluzioni alternative per la conclusione), riducendola gradualmente al silenzio; in italiano suona come “dissolvenza”.
Possiamo forse avvicinarla metaforicamente ai dati incoraggianti che arrivano, sebbene ancora con curve pericolose, comportamenti irrazionali e relative conseguenze, a una fine non lontana della pandemia mondiale e di tutto quello che ha comportato.
Mi fido degli storici quando ci raccontano dei profondi cambiamenti che trasformano società e sistema a seguito di ogni grande disastro abbattutosi sull’umanità. Mi piace pensare che questo possa avvenire anche nell’ambito lavorativo che conosco meglio, quello della Musica, e in particolare dell’Opera, intese come professione (non carrierismo), mettendoci avanti con quello che può e deve essere migliorato, partendo magari, dall’impegnarci a superare qualche radicato pregiudizio e al contempo provare a colmare alcune lacune contrattuali.

I teatri chiusi hanno potuto contare – laddove previsto e in misura e modalità differenti – su sostegni finanziari attraverso fondi pubblici, e sicuramente su una cordata di artisti impegnati a difesa di istituzioni musicali e culturali. Purtroppo la maggior parte di noi artisti, liberi professionisti, pur contribuendo con il proprio lavoro e i propri progetti alla reputazione degli stessi, non possiamo dire di aver potuto contare sulle medesime “attenzioni”.
Fa ancora male.
E porta a riflessioni su quello che potrebbe significare in futuro “teatri aperti”, su quanto andrebbe riformato, senza procrastinare ulteriormente, di quel sistema che rischia di fare implodere sé stesso e a costi elevatissimi, in termini economici e soprattutto umani.

Nel mondo dei musicisti, la / il Cantante d’Opera, soffre ancora di una percezione negativa, in termini di cultura e competenza, che è pesata storicamente sulla categoria. Lo dicono i fatti.
Per chi non se ne fosse accorto, le cose sono cambiate, e parecchio, con una particolare accelerazione negli ultimi trent’anni. Chissà, forse a furia di sentirselo dire i cantanti si sono messi a studiare: numerosi coloro che, oltre a saper cantare tecnicamente e ad avere cognizione di prassi e interpretazione, hanno conseguito il diploma, o approfondito la conoscenza, di un altro strumento; a questi si aggiungono coloro che vantano tra le altre, una laurea in discipline musicologiche (e sono molti).

C’è una pratica che mi vede direttamente coinvolta, mio malgrado, e che suona come stereotipo, forse pregiudizio: per ciascun repertorio vocale, e non solo Opera, concepito per una particolare lingua che non sia l’italiano, vengono scritturati solo determinati artisti ESCLUSI i cantanti italiani.
Al contrario, per il repertorio italiano, TUTTI sono scritturabili (e i madrelingua sempre meno), malgrado esiti spesso imprecisi o inintelligibili.
A guardarci bene, potrebbe essere considerato un grandissimo successo dell’Opera italiana, addirittura come occasione non solo di cultura e divulgazione ma – a dirla con termini alla moda – di grande inclusione.
Purtroppo funziona e converge quasi esclusivamente in una direzione: perché un baritono italiano non ha accesso alla parte di Wolfram dal Tannhäuser wagneriano, e un collega americano o russo, oltre che tedesco, ovviamente, si? E perché per Amneris si è scritturati solo in base al peso vocale? Davvero l’ultima interprete italiana di riferimento su questa parte è stata Fiorenza Cossotto?
Possibile che non si pensi che chi è nato con la lingua di Dante, alle porte del 2022 non sia in grado di studiare un’Opera in altra lingua e apportare con la propria personalità, carisma e intelligenza qualcosa di non detto sul quel particolare titolo?
Eppure quella tolleranza, e in realtà affetto e simpatia che suscitano – e suscitiamo – nell’esprimersi / ci in altra lingua, compresi attori e protagonisti della TV, potrebbero indurre a nuove riflessioni.
Credo che sia lecito pensare che la / il singolo professionista, al di là della propria provenienza, se non sente di essere portato per un certo titolo e impegno, anche alla luce delle ragioni appena citate, sia in grado autonomamente di declinare quel determinato invito.
Perché deciderlo a priori? Chi detta questo non-principio?
La crescita e l’allargamento dei propri orizzonti passa anche attraverso questo.

Sopravvivono indisturbati tipi vocali e (detestabili) “marchi di fabbrica” del secolo passato, ossia il cantante verdiano e wagneriano (come se poi Oscar de Il ballo in maschera non si possa considerare tale, giusto per citare un esempio) o il rossiniano e barocco (chi canta Basilio riesce a essere scritturato anche per altri repertori, ma non le Rosine, tanto per dirne un’altra).
Gli uni considerati maggiori (e meglio pagati) rispetto agli altri, minori (e pagati assai meno).
Ma su quale base?
L’impegno vocale e artistico del singolo cantante è per caso inferiore in termini di studio, memorizzazione, recitazione, coinvolgimento psicologico, durata dell’Opera, in base alla partitura?
Gli hotel, viaggi, commercialisti e tutto quello che è vita ed economia attorno alla professione, costano di meno in base al repertorio?

Vi è poi il tema della verosimiglianza, tirato in ballo a “comodo” ma che con la scottante contemporaneità, non va più tanto d’accordo. Quante volte ci si sente dire che non si è “giusti” per questo o quel ruolo, sulla base di fattezze fisiche (troppo grassa, troppo basso, bella / brutta, ecc.), età (troppo giovane, troppo vecchia), caratteriale (simpatico / antipatica) e persino genere: ricordo qui che la maggior parte dei ruoli en travesti, tra i quali molti händeliani e rossiniani, furono concepiti per voci e “corpi” femminili (non solo castrati, dunque) in tempi non sospetti, come a dire che l’Opera è persino più contemporanea di quanto si voglia far credere.
Se l’Opera siamo noi e ci rappresenta deve esserci spazio per tutti i tipi umani; se è rivoluzione gender, ebbene, che si faccia, ma allora a tutto tondo.

Malgrado i citati dati di fatto, la / il Cantante, se “tace” e acconsente, è meglio. Provo a segnalarne alcuni esempi.

Nei teatri d’Opera, sale da concerto (sempre più sovradimensionate) e con orchestre sinfoniche con una propria stagione, se si esclude per un attimo la musica contemporanea, si esegue repertorio composto uno, due o tre secoli fa (con tutte le questioni pratiche e strumentali del tempo) con un diapason, oggi, parecchio alto per le corde vocali umane che, ricordo, sono ancora le stesse dall’avvento dell’homo sapiens (quindi non più grandi o più potenti) e standardizzato attorno al 442Hz (ma in continua ascesa). Stabilito da chi, non è chiaro, ma una cosa è certa: ai cantanti (che rispetto al passato vengono chiamati per lo più ad eseguire opere complete e per progetti registici impensabili anche solo 50 anni fa), non viene chiesto cosa ne pensano e, se è per questo, accettano dimensioni di orchestre – il più delle volte stipendiate e salvaguardate – sproporzionate alla voce di quell’una / uno “di passaggio” su quella scena, e che costituiscono sempre più un muro invalicabile di suono.
A me fortunatamente non è accaduto, ma quanti cantanti, a spese proprie, hanno affrontato interventi alle corde vocali, dovendoli oltretutto tacere, manco fosse una propria macchia, per il timore di non essere più considerati all’altezza ed emarginati dal business?
Per chi volesse approfondire: dagli ultimi piani del Palazzo Fortuny a Venezia (e che vale sempre una visita), è ancora ben visibile la pianta di quello che fu il Teatro San Benedetto dove ebbe luogo la prima rappresentazione de L’Italiana in Algeri di Rossini nel 1813 (oggi un supermercato) per farsi un’idea delle reali dimensioni di quella sala.
Ricordo inoltre, in questa sede, un recente caso che fece abbastanza “rumore” nel 2016, quello del violista Chris Goldscheider che intentò causa alla Royal Opera House di Londra per eccesso di decibel e conseguenti danni irreversibili all’udito nel corso di una produzione della Walküre wagneriana.

Le mura dell’ex Teatro San Benedetto viste dal Palazzo Fortuny a Venezia. Foto © 2012 Anna Bonitatibus

Quando firmiamo un contratto, non ci è dato sapere chi / cosa ci verrà chiesto di fare / indossare / impersonare (sparendo spesso nel fantasma che presta la propria voce a ingombrantissime video-proiezioni) e allo stesso modo non veniamo mai coinvolti sulle questioni puramente musicali e che pure ci riguardano: gli intervalli o accorpamenti tra gli atti, eventuali tagli, il citato diapason, spostamenti di parti musicali a seconda di una drammaturgia riscritta, ne sono solo un esempio.
Meri esecutori, dicotomicamente silenti.

Temibili contratti nei quali quella data istituzione sembra tutelarsi “contro” l’artista che scrittura, e nei quali si sottoscrive purtroppo ancora oggi la forza maggiore alla quale si è aggiunta, diversificata, la voce “pandemia” e che a noi, in caso di disastro, non viene coperta o contemplata, se non in minima parte e a discrezione dell’ente, della città, del paese nel quale quel contratto avrebbe luogo.
Esattamente come sta avvenendo.

Sempre all’interno delle norme firmate e controfirmate, esiste ancora l’obsoleta regola della protesta – una sorta di autogol di chi ha scritturato? – secondo la quale puoi essere mandato a casa. Si, mandato a casa su motivazioni opinabili avanzate nel corso della produzione, e comunque unidirezionali, quando non sono rare le volte nelle quali ci si trova ad avere a che fare con direttori o registi (ai quali è consentito l’uso della “protesta”), inadeguati o impreparati.
Il tutto malgrado aver bloccato un periodo con l’esclusione di altro possibile lavoro altrove, l’aver investito in preparazione e spese anticipate per svolgere quell’impegno.
Negli stessi contratti, non v’è menzione purtroppo, e sarebbe meglio fare ammenda, di norme a tutela di comportamenti bullizzanti e mortificanti, non rari e a danno dell’artista (vissuti in prima persona e regolarmente taciuti).
E se ci si ammala…? Facile immaginare che si faccia di tutto per prevenire una malattia, perché diversamente si perde contratto, compenso e a volte anche affidabilità.

Mai come nel corso della pandemia abbiamo imparato quanto sia fondamentale e necessario il contributo della cultura come mezzo di sopravvivenza. Lo streaming ha contribuito anche a generare introiti, ma ancora i diritti relativi a immagine e registrazione rimangono dominio dei promotori e quasi sempre escludendo quei protagonisti che hanno realizzato quei contenuti.

In alcuni teatri d’Opera vi è la possibilità di entrare a far parte dell’ensemble fisso, con tipi di contratti che variano per durata e impegno. Almeno, questa categoria di cantanti ha avuto la possibilità di ricevere il supporto economico nel corso della pandemia, proprio perché stipendiati. E qui ancora una breve riflessione: entrare in un ensemble è una possibilità, una scelta individuale. Un celebre esempio su tutti, Isabella Colbran, nel 1811 firmò un contratto come cantante “stabile”, in qualità di prima donna (quindi parti di prima responsabilità) al Teatro San Carlo di Napoli, dove ricoprì questa funzione fino a circa il 1822, e al tempo, un ingaggio di questo genere era LA notizia.
Oggi, la / il Cantante d’Opera che stipula questo tipo di contratti, passa praticamente inosservato (non lo stesso per altre cariche osannate all’interno dell’organizzazione del teatro d’Opera), malgrado l’evidente apporto alla riuscita di una stagione operistica e l’usurante impegno vocale.

Isabella Colbran in Elisabetta regina d’Inghilterra di Rossini, Teatro San Carlo, 1815

Un noto sito consultato dagli addetti ai lavori, menziona l’esistenza di circa 110.000 artisti (tra cui direttori d’orchestra, registi, costumisti, cantanti, orchestre barocche e indipendenti), in attività, eppure abbiamo la percezione che ad essere scritturati siano pochissimi risultando spesso over-booked (da qui anche le tante cancellazioni) e super-pagati. Malgrado sia ricorrente sentir dire «ci sono troppi cantanti» si insinua il dubbio che ad essere “troppo poche” siano le idee.

Forse sarebbe ora di considerare l’allargamento delle competenze nell’ ambito artistico di un teatro, ragionare su un lavoro d’insieme piuttosto che il solo sistema “verticale” arrivando a includere il Cantante professionista anche come figura di consulente nel gruppo di lavoro. Potrebbe essere un arricchimento all’interno della gestione di un Teatro d’Opera nel quale oltre alle numerose e note attività … si canta!

Mancano normative a sostegno delle cantanti donne, che proteggano la professione sotto punti di vista elusi, tralasciati, dimenticati. Un paio di esempi: coloro che desiderano la maternità, devono fare i conti tra i contratti (ammesso che ve ne siano a sufficienza) per potersela permettere, dato che le leggi a protezione delle madri lavoratrici sono concepite per chi ha un lavoro da dipendente. La conseguenza è che … ci si arrangia.
La già citata età, altra pesante discriminazione: ai cantanti, ma specialmente alle cantanti donne, a un certo punto viene affibbiata una data di scadenza, c’è poco da fare.
Rarissimi i casi di longevità: la compianta Edita Gruberova ne era un esempio, eppure, non dimentico a riguardo dei suoi ultimi anni di attività, acide critiche in tal senso.
Cosa dovrebbe fare un soprano che sente di essere “ancora” in ottima salute vocale o che voglia continuare a lavorare, o ne abbia semplicemente necessità, con una guadagnata esperienza professionale e musicale, alla quale venga in mente la pessima idea di compiere 45 anni e alla quale mancherebbero circa 20 all’età della pensione, quest’ultima calibrata evidentemente su altri profili lavorativi: buttarsi dalla finestra?
Mettere fine a una attività professionale dovrebbe poter essere una scelta, non un’espulsione.

Ci riguarda tutti, anzi, più di tutti riguarda gli uomini, dato che a fronte di qualche accenno di cambiamento, la maggior parte di coloro che prendono decisioni trovandosi alla guida di istituzioni musicali – dalla formazione ai teatri d’Opera passando dalle agenzie di rappresentanza – sono loro.

Questioni anche di mentalità. La Musicologia e, quindi, l’Accademia, ad esempio, ci sta provando, attraverso un rinnovamento delle proprie posizioni di osservatrice della Storia della Musica e della performance avvicinandosi di fatto alla pratica musicale attuale. Il “sistema” Opera, invece, fatica ad aggiornarsi nel suo interno avvicinando il rischio che il Musica-business sia diventato solo un’altra occasione di gestione del potere tout court a detrimento delle proposte culturali e musicali, e di conseguenza di chi viene chiamato a realizzarle.
È tempo di contenuti, non solo di numeri.

Fade in: ascrivere la Musica a “bene comune”, intanto a livello europeo vista l’alta concentrazione di attività in questo continente, consentirebbe finalmente la nascita di nuove normative del settore, adeguate alla contemporaneità e in grado intanto di proteggere anche i lavoratori indipendenti come i Cantanti d’Opera (artisti ma anche contribuenti: lo dico da “portatrice” di VAT / IVA fermata, a causa della pandemia, nell’esercizio delle mie funzioni professionali, civili e familiari, persino multata per non aver corrisposto tasse su proventi non realizzati – e non ancora realizzati) oltre che, provare ad assicurare maggiore trasparenza nelle nomine degli incarichi manageriali, nei rapporti con le agenzie (commissioni che fluttuano inspiegabilmente tra il 10 e il 20%) così come nell’applicazione del concetto di inclusione, dell’equità di genere, nella Musica come Professione e generatrice di benessere collettivo ed economico.

© Anna Bonitatibus, 1 novembre 2021