Recentemente in un lusinghiero articolo che commentava una mia esibizione, il recensore si domandava come mai io non fossi una “superstar”. E spesso, dopo mie esibizioni nei principali teatri di Vienna, Monaco, Londra, Parigi ecc., è capitato che dei fan italiani, giunti lì per ascoltarmi, nel farmi i complimenti mi chiedessero: “Ma perché è così raro sentirla cantare in Italia?”. In realtà in queste domande mi sono imbattuta numerose volte, ma ho sempre voluto sorvolare sull’argomento.
Molteplici le ragioni.
Molte hanno a che fare con alcune dinamiche del “sistema operistico” che in questo periodo stanno forse (e finalmente) venendo sempre più alla luce.
Oggi, l’epoca della virulenza, ci mette nelle condizioni di fare i conti con problemi e discriminazioni già largamente in essere prima di questa crisi.
Usare la musica per accrescere la propria fama e alimentare il proprio ego o mettersi a servizio della Musica, studiando, divulgando e assicurando maggiore longevità a questo settore?
Per quanto possa sembrare ingenua, idealista, persino noiosa, io ho scelto la seconda via.
Speravo che talento e impegno bastassero (…ché poi il tempo per tutta quella auto-promozione è rubato allo studio e al lavoro), ma temo, pur sapendo nuotare, d’annegare in misteri inspiegabili, e con me migliaia di musicisti che sono dentro questa professione animati dal medesimo sentire.
Il marketing aggressivo (spiace dirlo, di stampo americano) si è appropriato anche del vivere del musicista e della materia di cui si occupa, creando dannosi equivoci, dando luogo a una catena di comportamenti che, assieme agli evidenti danni creati dalle chiusure dei teatri, sale da concerto e dalla sordità politica sulla cultura, rischia di far implodere il mondo della produzione musicale. E di dar ragione a chi, animato da luoghi comuni populisti, grida allo spreco di risorse.
Da quando è iniziata la fase della chiusura che ha afflitto praticamente tutto il pianeta, ho sostenuto in modo appassionato la sperimentazione di formule alternative affinché noi, cittadini e musicisti, potessimo continuare a fare musica e lavorare, ergo compiere la nostra “missione” e generare quelle tasse sulle quali possono contare, per cominciare, i sistemi sanitari.
Non sta andando così, anzi non sta andando affatto bene, tanto per ricusare quella stucchevole retorica che ci ha accompagnato per mesi: a incassare nuovo lavoro e nuove entrate sono “i soliti”, quelle superstar, appunto – e i loro auto-referenziali rappresentanti – aspiranti divinità.
Siamo nel nuovo millennio già da vent’anni e usiamo ancora formule impolverate e opportuniste; ma siamo sicuri che sia questa la risposta a problemi strutturali e progettuali?
Pare chiaro che il divismo alimenti solo sé stesso e non il futuro della cultura: dalla musica alla politica!
Dall’inizio di questa epidemia ho contato almeno 40 mail ricevute dall’ufficio delle entrate britannico (risiedo in Gran Bretagna) per il supporto ai lavoratori autonomi: il contenuto è un sensazionale ammontare di niente. Recentemente, attraverso uno dei suoi messaggi, il ministro della cultura italiano (sono italiana di nascita e di passaporto), intendeva infondere fiducia negli artisti che non hanno le spalle forti, annunciando che non sarebbero rimasti soli.
Ebbene, sta accadendo l’esatto contrario, a livello internazionale (le dichiarazioni imbarazzanti rimbalzano un po’ ovunque, per non citare il fallimento delle istituzioni americane); e laddove si ha un po’ di coraggio per ricominciare grazie alle riaperture, ci si affida (o forse si è intrappolati a farlo) ai nomi che attireranno nuovamente verso il botteghino.
E così – quando non si tratta del corretto recupero di contratti cancellati –, si assiste all’annuncio di quei pochi e soliti nomi, dai direttori d’orchestra, a registi e cantanti, in diversi cartelloni, compreso in quei luoghi nei quali mai si sarebbero sognati di prodursi prima (come dimenticare i balletti da cancellazione anche come strumento di auto-promozione), accompagnati da una discreta dose d’ubiquità e con multipli incarichi ai limiti del conflitto di interesse.
Agli altri professionisti a parità di talento, meriti e tasse versate (e così i loro rappresentanti), resta la ricchezza delle proprie intenzioni.
La verità è che a essere in crisi sono le idee e visioni a lungo raggio.
Antidoti a pigrizia e clientelismo, ancora una volta, sono competenza, trasparenza di nomine e ingaggi, comunione d’intenti, in pratica: rimboccarsi le maniche.
La mancanza di coesione e di necessarie riforme favoriscono questo sistema obsoleto, corrotto e profondamente discriminante che per l’ingordigia di pochi sta fagocitando la possibilità di lavorare di tutti (e sottostimando l’intelligenza del pubblico).
Chissà che, al contrario, in questa deprecabile situazione, non si possa invece ritrovare quel barlume di lucidità per ridisegnare la rotta e rendere questa crisi la più grande occasione di cambiamento per la Musica, l’Opera e la Formazione attraverso una adeguata e innovata legislazione europea.
20 Giugno 2020
© Anna Bonitatibus